Ieri l’Associazione dei Corridori Professionisti ha diffuso una nota molto dura a seguito del video pubblicato che rivelerebbe la presenza effettivamente di motorini all’interno delle biciclette di alcuni corridori professionisti. Nella nota si sollecita la radiazione a vita dei corridori trovati a truffare in questo modo.
Si deve fare qualcosa, su questo non ci piove. Una bicicletta truccata rende ridicolo il ciclismo peggio di un corridore dopato. Oppure ci scandalizziamo così tanto perché al doping farmacologico siamo, in qualche modo, abituati?
Perché i concetti di “ha sbagliato, bisogna dargli la possibilità di recuperare” e quello di “ormai si sa cosa si fa, vanno radiati a vita” sono difficili da affiancare e giustificare. Il doping farmacologico ha in sé anche lo scarso rispetto della persona (fa male e porta a conseguenze fisiche inesplorate e certamente non positive sul lungo termine). La bicicletta truccata non fa male al fisico ma pone la questione su un altro livello.
Chi sapeva?
Il doping tecnologico è senza appello. Inutile parlarne se non si hanno prove. Non vale il “lì quello è andato troppo forte” chissà cos’aveva. Perché o lo prendi subito con la bicicletta fasulla, oppure non si potrà mai sapere e l’accusa si potrebbe ritorcere contro all’accusatore (= erano chiacchiere, mi stai diffamando). E non vale sapere che ne esista la possibilità perché qualche corridore diventi poco credibile.
Al tempo stesso è senza appello per chi viene beccato. Se un corridore viene fermato e trovato con una bici non regolamentare non ci sono giustificazioni. È come lo studente beccato col libro al compito in classe: un’evidenza schiacciante.
Nei casi di doping farmacologico attorno al corridore trovato positivo si crea immediatamente il vuoto: ha fatto tutto da solo, si dice, e nessuno, ovviamente, ammetterà mai di averlo aiutato, indotto, tentato. Fino a prova contraria e anche oltre. Uno scaricabarile istantaneo.
Con una bicicletta truccata questo diventa difficile se non impossibile. Se la bicicletta ha il motorino come minimo lo deve sapere il meccanico che ci mette su le mani. Probabilmente più di un meccanico (visto che sono diversi e sulle bici lavorano insieme).
Se lo sa il meccanico è difficile che anche il team non ne sia al corrente. La gestione tecnica e logistica della cosa, negli spazi ristretti di una squadra è piuttosto difficile, anche ammettendo che si sia riusciti a modificare la bicicletta di nascosto chiunque potrebbe accorgersi che ci sia “qualcosa di diverso” e il rischio sarebbe troppo elevato (quanto guadagna un meccanico per correre un rischio del genere?)
Insomma, a cascata si arriva probabilmente fino al costruttore e il danno di immagine sarebbe negativo e clamoroso ed enorme. Riuscirebbe un’azienda a dire che “non ne sapeva niente”?
Anche qui probabilmente immaginiamo mille sfumature e scuse più o meno plausibili. Ma certo la questione si fa più difficile del “semplice” doping farmacologico.
Forse la differenza è che nel doping classico si contempla l’attimo di debolezza che fa fare l’errore di una puntura sbagliata o di un farmaco vietato. Quello tecnologico è un doping che presume una premeditazione a lungo termine.
Però c’è anche un’altra questione. Non tanto il motorino interno, che è evidente, ma le ruote truccate qualcuno ha ipotizzato che possano essere state utilizzate da qualche corridore “a sua insaputa”. Certo, fa sorridere la cosa e riporta alle scuse ridicole di qualche politico, ma qui assume un altro valore. Il corridore si fida della squadra e dei suoi meccanici, quando sale in bicicletta non controlla nemmeno se i bloccaggi delle ruote sono chiusi con la giusta forza. E un giorno potrebbe sentirsi di andare particolarmente forte e di essere nella “giornata di grazia”. Poi si troverebbe radiato a vita.
Difficile stabilire una linea concreta e sicura, ma è abbastanza evidente che, nel doping tecnologico più che mai, a pagare non dovrebbe essere solo il corridore.
Guido P. Rubino, 19 apr 2016