Fu una corsa tiratissima, di quelle che poi finivano per litigare gli “squadroni” più forti e noi dietro a cercare di stargli, per lo meno, attaccati. Per finire dignitosamente. C’era persino l’arrivo in leggera salita che si faceva così forte, così in scia (per chi stava in gruppo) che, ricordo, a fine corsa ci volli tornare su. Come se non l’avessi visto nei giri precedenti che era in salita. Ma in corsa mi venne il dubbio che non ci fosse più pendenza.
E vinse un ragazzino. “Pensa che è un primo anno” mi dissero dopo il traguardo, mentre bevevo da una borraccia gelata di quella gara di prima domenica di marzo. Mi toglievo la polvere dalle gambe, brunite dai chilometri in città di quel Trofeo Lazzaretti, prima ancora che dal sole, e mi passò davanti questo ragazzino. Mingherlino e con l’aria mite, non la faccia incazzata di certi dilettanti di lungo corso degli anni ’90.
È veneto, si chiama Davide Rebellin ed è la sua prima corsa tra i dilettanti.
Ecco, lo “conobbi” così Rebellin, con l’aria quasi imbarazzata dal clamore che lo portava a quella premiazione meritata.
Nella corsa tirata di curve tra case a macchine parcheggiate andò via con un gruppetto e poi li suonò tutti in quell’arrivo in leggera salita. Di quelli, avrei scoperto poi, a lui preferiti (ammesso che ce ne fossero di non congeniali per uno così).
Continuai a sentire il suo nome quell’anno. Dopo quella corsa ne infilò altre, prestigiose pure. E via così, fino alla maglia azzurra da asso pigliatutto o quasi. Una carriera segnata dall’eccellenza e dalle vittorie da dilettante. Una storia di secondi posti da professionista che sembrava impossibile e poi ancora di vittorie prestigiose.
Un’ombra, pure, che riuscì a soffiare via recuperando tutto ma che qualcuno ancora gli rinfaccia.
L’ho visto e rivisto nelle gare che contavano. Io, ormai, con taccuino, macchina fotografica e qualche chilo in più, lui sempre con le gambe tirate e lucide. Una volta glielo dissi: ricordi la tua prima vittoria da dilettante? Era a Roma, io ero uno di quelli dietro, con la lingua di fuori. Un sorriso e una pacca sulla spalla. Ci si vede all’arrivo, fammi una bella foto…
E non smetteva mica, neanche a 50 anni suonati. Rilanciava ogni anno che era diventato un simbolo di longevità atletica. Continuava a mettersi dietro ragazzini che potevano essergli figli. E sorrideva, era la sua vita e lo diceva. Gli veniva bene e continuava. Forse doveva smettere, forse aveva deciso e ogni anno si ripeteva la sorpresa di vederlo ancora lì col numero addosso.
E invece siamo qui a scrivere ancora di una tragedia. Notizie frammentarie da non poter dare giudizi. Ma servirebbero? Testimonianze raccolte al volo di chi ha visto il disastro e non ci crede ancora.
Ora leggeremo di tutto e dovrò legarmi le dita per non rispondere, ché a certe persone se non hanno insegnato l’educazione i genitori non la impareranno certo da me. Però sono certo di una cosa: Davide in bici ci sapeva andare e sapeva come stare su strada.
Intanto continuo a rileggere quel titolo che non riesco a sentire vero. Forse mi ci abituerò. Anzi no, come per troppi altri.
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mi unisco al lutto di tutto lo sport per la morte di Davide Rebellin.