Lo abbiamo scritto tante volte che la bicicletta è un fenomeno culturale. Ha fatto storia nello sport e nella società, sono stati scritti libri su questo. La bicicletta è un fenomeno anche economico. È certamente un bene questo, ma complica le cose.
Quando si mette qualcosa in un contesto economico, inevitabilmente ne subisce le conseguenze e non sempre sono positive. Spesso sono di competizione.
Allarghiamo il discorso.
La bicicletta è un fenomeno di società, ha a che fare con lo stile di vita, con la mobilità.
Sul piatto, già in queste poche righe, abbiamo messo argomenti pesanti per liquidare la bicicletta come “gioco”, momento di relax. È anche questo, certo, ma soprattutto molto di più. Può essere davvero in grado di cambiare molte coste nelle nostre città soffocate delle auto.
Semplice no?
Neanche per idea e della difficoltà ce ne accorgiamo ogni giorno di più.
Partiamo dalla cronaca più cruda, quella che fa la conta di morti e feriti più o meno famosi che si registrano con una frequenza impressionante sulle nostre strade. C’è un problema enorme e non serve neanche andare al bar o nei social per rendersie conto che si tratta di un problema culturale. Abbiamo presente tutti i commenti che scattano appena si parla di un incidente a un ciclista. Quel “si però” maledetto che abbiamo già avuto modo di stigmatizzare e che parte in automatico a prescindere di chi sia la colpa.
Anzi, a ogni incidente in cui sia coinvolto un ciclista – non importa la colpa e non importa la sorte, pensate che bassa civiltà – parte la litania delle critiche quando non degli insulti. Potremmo far finta di niente e parlare di ignoranza ma non si tratta di casi isolati, dell’ubriacone del bar. Si tratta di persone che hanno pure un titolo di guida, patentati, che parlano di legge a modo loro. E passare da come la vorrebbero a come è diventato quasi scontato e si finiscono per confondere i piani del discorso. Non vale neanche più la scusa che alcuni ciclisti siano effettivamente maleducati. Generalizzare è inaccettabile.
Sempre in più tendono a giustificare la loro critica con concetti in chiaro contrasto col Codice della Strada su argomenti che non sono nemmeno da mettere (né sono mai stati messi) in discussione.
È sempre più facile e frequente leggere affermazioni che vorrebbero vietare alle biciclette il transito sulle statali e anche sulle provinciali. Con molta nebbia giuridica in testa si va ad affermare che se c’è traffico le biciclette non devono essere in strada.
Poi si ripiega sulle ciclabili, dove dovrebbero essere confinati i ciclisti (e se non ce ne sono a tiro pazienza, stai a casa) ci si aggrappa a concetti mal conosciuti e spesso si finisce con invocare bollo e assicurazione obbligatori, come se si trattasse di un mezzo motorizzato qualsiasi. Per dispetto.
Discorsi sempre più presenti e che vengono da persone in possesso di patente. Documento che si dovrebbe possedere a seguito di un esame che certifica uno studio che invece appare completamente assente. Di certi argomenti, i pur patentati, sembrano non aver mai sentito parlare. Qualche fenomeno si azzarda a citare articoli del Codice della Strada a caso. Cercando di piegare al proprio comodo parole che sono scritte ben chiare. La definizione di analfabetismo funzionale calza a pennello in tale contesto. Diventa una massa che si dà ragione col numero, come se la legge dipendesse da chi urla più forte in quel momento.
Una base culturale
Da dove viene tutto questo?
C’è una responsabilità nella comunicazione. Sempre di più è la stessa comunicazione politica, quella che dovrebbe essere più alta e civile, che decade in discorsi di basso livello. Ma c’è un mondo economico che punta al risultato pieno e sempre, come è logico che sia quando si deve rendere conto agli investitori.
La comunicazione automobilistica porta… fuori strada
Prendete a caso delle pubblicità di automobili. Gli argomenti ricorrenti fanno riferimento a un’esperienza di guida, alla libertà, all’indipendenza.
Temi che vengono sviluppati con immagini e slogan ragionati e spesso portati all’estremo al punto che qualcuno ha già dovuto fare marcia indietro.
Lasciar passare che un’automobile descriva la personalità (più che la disponibilità o la necessità) del proprietario è temerario e certamente accattivante per proporsi sul mercato, forse ci può anche stare. Non va bene se quella personalità afferma se stessa con prepotenza, dimostrando che gli altri restano indietro. La strada non è prevaricazione, è con-vivere civile.
Parlare delle prestazioni di un’auto descrivendo le caratteristiche di accelerazione e le velocità che può raggiungere è pure pericoloso: fa venire voglia di provare una volta che si sono spesi tanti soldi. Prestazioni che sarebbero da testare in pista, tanto per restituire il favore.
Poi è chiaro: la pubblicità parla di situazioni ideali, quante ne vedete di reali con automobilisti in mezzo al traffico fermi? Sarebbe un controsenso. Il traffico, nelle pubblicità, compare solo quando lo si supera con l’auto dei desideri. Difficile lasciarli insoddisfatti una volta in strada poi. Si soffia il concetto che dove ci sia un’auto si debbano togliere tutti di mezzo, per far passare.
Potremmo proseguire con gli esempi. Se vi va, fatelo voi nei commenti.
Certo, dopo una comunicazione di questo genere, figuratevi se si può essere disposti a frenare un po’ di più perché c’è un ciclista.
Ecco, forse se si volesse davvero fare qualcosa di civile, si dovrebbero obbligare i produttori di auto a fornire delle avvertenze alla consegna del mezzo. Un po’ come avviene sui pacchetti di sigarette.
Altrimenti si deve ammettere di voler fomentare una guerra. Che è quello che sta accadendo in effetti.
30 dic 2019 – Riproduzione riservata – Cyclinside
Guido P. Rubino
Buongiorno Guido e buongiorno lettori, a mio giudizio non si tratta di demonizzare una categoria o un mezzo di trasporto anche perché talvolta una categoria non esiste in quanto spesso i ciclisti sono anche automobilisti e viceversa e l’auto non sostituisce la bici e viceversa. Il concetto invece del “si ma però” purtroppo viene applicato in troppe occasioni portando ad esempio il caso della violenza sulle donne che “però se mettono la minigonna allora” che mi porta a pensare che non è questione di patente ma forse un problema antropologico. Il discorso pubblicitario si sa che è così e ti faccio, Guido, una domanda spudorata: ti sei mai posto il problema se le pubblicità che lampeggiano sul sito che curi dicono tutte la verità?
Sono convinto che se si partisse con calma da lontano, come in una tappa del tour, affrontando con giudizio e un po’ di coraggio i temi senza per forza dividere tra uomini e donne Juventini ed interisti, ciclisti ed automobilisti si otterrebbero dei buoni risultati. Lorenzo
Ciao Lorenzo,
È vero, non serve generalizzare una categoria e, ti dico di più, quando dicono che gli automobilisti sono dei potenziali assassini, io mi sento chiamato in causa, in quanto automobilista, oltre che ciclista. E ci penso quando sono alla guida di un’auto a questo. E non vuol dire che non possa sbagliare, ma cerco di tenere quel po’ di prudenza per recuperare un eventuale errore.
Al di là di questo mi interessava porre l’accento sulla comunicazione proprio perché a volte diventa esasperata e non va bene.
Per quanto riguarda il tuo quesito, sì: teniamo d’occhio le pubblicità ovviamente. In quelle “dirette” a volte capita di discuterne anche con i clienti per trovare il messaggio più azzeccato. Nella pubblicità programmatica non è possibile fare un controllo preventivo sui singoli messaggi, ma abbiamo dato delle linee guida alla società che gestisce le inserzioni e ogni tanto abbiamo già chiesto modifiche.
Grazie a te intanto
Guido